martedì 3 dicembre 2019

Un nuovo sole sulla città ferita



Di Emilio Fusari_____________________

Accade a volte che piccoli luoghi di provincia assumano temporaneamente, per talune motivazioni, carattere di centralità nell’interesse generale. Una notte d’aprile di dieci anni prima un terremoto sconquassò la città.
La polvere ancora non si depositava, rendendo invisibile la devastazione di case distrutte, tetti crollati, di travi spezzate e fioriere attaccate alle ringhiere senza più il balcone, ferri nudi aggrovigliati, di profonde crepe sui muri ancora in piedi, come gli scarabocchi di un dio annoiato al telefono, di persiane incardinate a stipiti penzolanti dai muri, di cavi elettrici tranciati, che sfolgorando nel buio illuminavano dalla strada l’interno di palazzi sventrati, diapositive di libri sui comodini che nessuno avrebbe terminato, di panni stesi ad asciugare che nessuno avrebbe ritirato, di piatti della sera non sparecchiati, detriti fra i resti di pollo,  di inquilini del terzo piano che riconoscevano, nell’ammasso dei solai crollati l’uno sull’altro al piano terra, un’ anta del proprio armadio o un braccio del vicino dall’ orologio, di gabinetti sospesi nel vuoto, a dodici o quindici metri da terra,  di  macchine in strada schiacciate da montagne di macerie, dove qualcuno aveva pensato, erroneamente, di cercare riparo; le persone che scavavano a mani nude fra i  resti: nocche insanguinate, polpastrelli lividi, insensibili ormai alla durezza dei frammenti estratti, seguendo  flebili grida o presunte tali in un silenzio irreale, squarciato a tratti  dalle sirene dei mezzi di soccorso, partite verso l’ospedale cercando di arrestare, ad ogni costo, la volontà di esalare l’ultimo respiro a poveri diavoli restituiti alla vita da una tomba di macerie, chiamata casa fino ad un’ora prima; i lampeggianti che tingevano di blu la superficie dei laghetti creati da tubature idriche rotte, dove si abbeveravano cani lupo che sarebbero stati obbligati, nell’immediato futuro, a stare diciotto o venti ore al giorno naso a terra, ma che fortunatamente nessuno avrebbe mai obbligato, o potuto obbligare, ad un coinvolgimento emotivo di tipo umano, cosicché nelle pause sguazzavano divertiti nell’ acqua; l’odore di gas rubava ossigeno alle persone che alle quattro del mattino, sbalzate via dal letto, ma anche dalle stanze e dai piani in cui dormivano, si chiamavano, spesso senza risposta, fra le rovine. Intanto, la mastodontica macchina dello spettacolo arrivava da lontano: vibrando poggiò il suo piede elefantiaco, noncurante delle proprie dimensioni, spremendo quel posto già martoriato, dilatandone i confini nello spazio. Gli schizzi si sparsero ovunque, finanche a cospargere una dacia sperduta nella vastità siberiana.




Scendendo dall’autobus Galina calcola che in cinque minuti saranno arrivate in centro – con un quarto d’ora avrebbero raggiunto l’altro capo–, anche se la città in quegli anni si era moltiplicata a dismisura ad ogni servizio televisivo, video di You Tube e post di Facebook, arrivando ad occupare nella sua mente uno spazio infinitamente maggiore di quello reale. Sua sorella Iliana, trecce rosse saltellanti dietro di lei, sette anni il prossimo mese, continuò a pettinare la sua bambola preferita per un minuto o due vedendo Galina uscire sbattendo la porta, prima di realizzare che non c’era nessun altro in casa e prima ancora di rivederla precipitarsi nuovamente dentro a recuperarla, perdendo l’autobus.
–Galya mi fai male, lasciami il braccio –  
–Ily siamo in ritardo –  
–tu sei in ritardo, io ho fame –, incrociando le braccia, puntando le Lelli kelly para lampeggiante a terra. Galina torna indietro, sguardo da killer comprensivo che vuole ascoltarti prima di ucciderti, le accarezza dolcemente il mento – hai fame piccola? –
–mmm, mmm…–
–vuoi mangiare? –  micro sì con la testa –oh, e cosa puoi mangiare adesso, vediamo… –
–voglio la pizzetta–
–la pizzetta? Mmm…non ce l’ho la pizzetta, va bene questo? – tirandole fortissimo un orecchio. La bimba scoppia in lacrime –lasciamiii, mi fai male–  
–e allora cammina, Rico è un’ora che aspetta–
Sotto il porticato di marmo in stile ventennio Rico, gigante dagli occhi miti, telefono in mano e birra nell’altra, tempesta di messaggi Galina, nessuno dei quali spuntati. L’ultimo vibra sulla natica della ragazza quando già lo vede.
–Ehi, siamo qui–Rico alza lo sguardo dallo schermo, beve un sorso di birra e si asciuga la bocca con la manica. 
–C’è anche Greta Thunberg? Cazzo, non ho portato l’ombrello –.
 Micro calcio lampeggiante di Iliana sullo stinco di Rico.
– Smettila scemo, non sapevo dove lasciarla, la zia era uscita–, alzandosi sulle punte per toccare la bocca di Rico con la sua, poi prendendo la birra dalle sue mani e bevendo un sorso. Rico vuole la bottiglia indietro, ma Galina la nasconde sorridendo dietro la schiena , costringendo il ragazzo ad un abbraccio forzato per riprenderla. Lui ruota l’enorme braccio come una gru e stringe ragazza, mano e birra in un colpo solo, le bocche si trovano ancora.
 –Ehi, teneroni, io ho fame, capito? Faaameee –


Cinque euro si materializzano improvvisamente davanti agli occhi della bambina, che allegra trotterella verso un bar lì di fronte a prendere una pizzetta al taglio ed una Fanta. Tornando li trova affaccendati grossomodo nelle stesse pratiche, con solo poche varianti: la mano di lei sulla spalla, la birra appoggiata sulla balconata, la lingua di lui… Iliana è bravissima nell’“aguzzate la vista”, ogni giovedì aspetta con ansia la zia rientrare dal lavoro per rubarle La settimana enigmistica: da quando va a scuola riesce anche a completare sensatamente la pista cifrata. La zia invece usa la rivista come il surrogato di un corso di italiano, anche se fino ad ora, per spazzare i pianerottoli, non le è servito moltissimo sapere che un paracadute può essere chiamato “dispositivo di salvataggio usato dagli aviatori”, ma non si sa mai. La bambina ha ottenuto ciò che voleva, si mette a sedere felice sulla balconata guardando il film d’amore davanti a lei, mangiando e succhiando rumorosamente la Fanta.
La versione moderna di questa favola senza tempo vuole Galina di umili origini sulle soglie del millennio, meglio ancora se in una dacia solitaria persa nella vastità siberiana sferzata dall’inverno polare; un termometro costantemente sotto la soglia della decenza e vento incessante a picchiare sui vetri, fumo e cenere negli gli occhi arrossati della povera famiglia in posa davanti al fuoco per un disperato selfie della sopravvivenza. Le origini di Rico invece sono locali, in uno di quei graziosi paesini dell’hinterland sferzati da un inverno che ha poco da invidiare a quelli di Galina (almeno per la temperatura).
Nella foto ingiallita che tiene sempre nel portafoglio, in cui ha cinque anni e viene sorretta da una giovane donna sorridente (la madre), la piccola Galina non ha nulla dell’intemperanza odierna, ampiamente acquisita dopo sette anni di irreversibile occidentalizzazione. A nove anni è una bimba bellissima ed educata, che ogni giorno percorre a piedi sei chilometri per raggiungere la scuola nella vicina cittadina di *****, superando tutte le prove che il fato siberiano le mette innanzi senza ritegno. Non orsi, lupi o serpenti, ma scarpe bucate e nottate digiune, affrontate dalla piccola con stoica abnegazione, sfidando ogni pronostico che la inchioderebbe, come milioni di suoi coetanei nella burrasca del postcomunismo, ad un futuro di fame e di nulla travestito da libertà. Ma lei è una bambina precoce: a quindici anni l’adolescenza è un capitolo archiviato, è tempo di maturità e realismo, quindi di un volo low cost San Pietroburgo/Roma, solo andata. Di lì L’Aquila, da una zia senza figli che non sapeva neanche di avere; la quale, come premio per aver manifestato gioia all’ idea di poter crescere Galina in un mondo che le avrebbe garantito un futuro a sua detta <<radioso>> (come “di chi emana un’intensa luce”, sette verticale), dopo tre anni si vide recapitare un fagotto contenente la piccola Ilenia appena svezzata, con tanti saluti.
 –È il suo incantesimo, ha gettato una maledizione su tuuutta la Russia, anche il terremoto è opera sua …– sussurra piano Galina, sgranando gli occhi in direzione della sorellina e disegnando sul “tutta” un grande cerchio in aria con le braccia, chissà quanto recitando. La bimba aspira rumorosamente una sorsata di Fanta dalla cannuccia con occhi impassibili, ha visto It l’anno scorso, di nascosto con una compagna di classe, ci vuole ben altro per spaventarla. 
–Sua di chi? –
Galina non ha visto It, questa roba l’ha autosuggestionata. Si guarda intorno per qualche secondo, poche anime sotto il porticato. Poi prende un rossetto dalla borsa e scrive frettolosamente qualcosa sulla colonna di marmo bianco appena ripulita, che si presta benissimo allo scopo. Iliana estrae un telefono e scatta una foto, la farà vedere alla sua compagna di classe domani:




Galina non sa esattamente perché un attimo dopo si ritrova a correre lungo una scalinata laterale (con Rico dietro di lei che porta sua sorella sotto l’ascella come una palla da rugby), dato che il suo ultra sviluppato istinto di sopravvivenza artico ha preferito la salvezza ad un’accurata analisi dei fatti. Presto li metterà in fila arrivando al colpevole: è Rico, che ha fischiettato indifferente guardando in aria, dopo che la sua bottiglia di birra, sibilando dietro le orecchie delle ragazze, si è spaccata sulla colonna, un po’ più in alto della scritta, facendo cambiare traiettoria ad un gruppo di passanti e richiamando infine l’attenzione di due annoiati tutori dell’ordine, affaccendati fino ad allora in una sbadigliante  verifica fra le differenze di orario degli orologi esposti in una vetrina in fondo al porticato. 
Ma quando i solerti funzionari arriveranno sulla scena vedranno solamente una macchia come una medusa sul muro, i cui tentacoli di birra, scolati a terra passando sulla scritta, cercheranno i cocci rotti della bottiglia sparsi sul pavimento, in un disperato tentativo di rinascita.


Dopo due ore i ragazzi sono in un edificio diroccato, una scuola d’arte cui dal giorno del terremoto nessuno ha più messo mano. Iliana è stata riconsegnata non senza capricci (ha consumato merenda? Certo zia) ma Rico è stato perentorio: troppo pericoloso. 
La grande costruzione, un tempo snodo nevralgico e cuore pulsante dei sogni di molti giovani aquilani, lentamente s’è abbandonata all’abbraccio soverchiante della natura, scomparendo quasi fra le fronde degli alberi e l’erba incolta che si riappropria degli spazi di suo dominio. I ragazzi saltellano agili fra le insidie che conoscono perfettamente: detriti, libri, quaderni, topi in fuga, banchi, cattedre ed armadi ammassati confusamente davanti a loro, fiancheggiano pareti semidistrutte che svelano, impudiche, squarci di stanze che avrebbero dovuto celare, o altre ancora miracolosamente al loro posto solo grazie ad uno scheletro di fili elettrici, che vibrano pericolosamente al passaggio.





–Sei stupido! – Galina calcia un registro di classe aperto davanti a lei facendolo volare: sembra, per un secondo, un gabbiano in immobile attesa sul mare, prima di perdere la spinta dell’aria e rovinare giù, trasformato in un nuovo, indistinto caos polveroso. –Io non voglio tornare in Russia per le tue scemenze! –
Rico, una tavolozza in mano ed un pennello nell’altra, le risponde con la bocca a culo di gallina, nell’imitazione di quello che pensa sia un francese.
 –Mes scemenz? E allora toi, con questa storia della Bab…– ma non finisce la frase, Galina si scaglia immediatamente sul ragazzo, tappandogli la bocca con tutte e due le mani. 
–Non dire il suo nome, ti prego. –
Rico fa cenno di sì con la testa, e Galina lascia la presa. Torna la quiete. 



Rico e Galina sono praticamente inseparabili da cinque anni, da quando in una giornata come tante al centro commerciale lei si cacciò davvero in un bel casino. Siamo nella primavera del 2014, post-sisma.Una mattina di aprile se ne stava seduta, gambe incrociate e occhi socchiusi, sul cofano di una vecchia Skoda parcheggiata nell’unico spicchio di sole della grande spianata antistante. Un vento impetuoso aveva sparso quella notte immondizia, rami spezzati e malevoli presagi sulla città ferita, scomparendo solo alle prime luci dell’alba. Sebbene la giornata prometteva temperature miti, l’area era reduce da una forte escursione termica, con l’umidità che imperlava ancora i pali della luce e le cassette degli idranti del parcheggio. I negozi avevano tirato su le serrande da qualche minuto ed il traffico era ridotto ad una manciata di macchine pigre che venivano frettolosamente abbandonate nei posteggi più vicini all’ingresso.
Solo la Skoda faceva eccezione. Era ferma infatti a due o trecento metri dall’entrata, in posizione solitaria: curioso, se non si considerava l’intenzione di chi ce l’aveva lasciata di rubare quell’unico spicchio di sole per asciugarne la carrozzeria piena di macchioline d’acqua. Galina sentiva il calore del motore spento da poco penetrarle le ossa attraverso il cofano già asciutto, ricongiungendosi con il tepore del sole sulla pelle del viso in un abbraccio termico, nel mezzo del quale lei era tramite e fine allo stesso tempo.
La mattinata prometteva bene: presto l’avrebbe raggiunta una sua amica per vedere insieme delle stoviglie e <<qualcos’altro di veramente carino per la mia nuova casa che solo tu puoi scegliere>>, e poi sarebbero andate a mangiare fuori <<da vere amiche… non m’importa, sei come una figlia per me…offro io>>, aveva necessità di comunicarle  <<una certa cosa che inizia per effe e finisce per o, non ti fa dormire la notte ma non è quello che pensi tu e fra sette mesi… Sìììììì…non lo dire ad alta voce…Nooo, non sto piangendo…Sìììì sto piangendo…ci vediamo fra un’ora…>>. Click.
La sua amica era incinta. Galina assaporava la novità ad occhi chiusi, ricacciando negli abissi più scuri un tenue, ma reale spettro di gelosia, assecondando il quale presto sarebbe stata spodestata dal rango di “come una figlia” a quello di zia o chissà che altra ipocrita onorificenza. Ad ogni modo la gioia per quella notizia era reale, come anche quel ragazzo che la fissava da un quarto d’ora dalla balaustra in fondo al parcheggio, che non accennava a distogliere lo sguardo neanche quando lei lo sfidava apertamente con occhiate ostili. Ma cosa aveva in faccia? Da quella posizione non ne era sicura, ma non sembrava passarsela troppo bene… “Maniaco del cazzo,” pensò, “li trovo tutti io”.Chiudendo gli occhi quello sparì, ma bastò riaprirli per confermare di nuovo la sua presenza lì, appollaiato come un falco obeso. Li chiuse ancora, questa volta strizzandoli forte: Treee…dueee… unooo…no, l’incantesimo era sbagliato e il tipo non era scomparso, ma in compenso si era materializzato davanti a lei un uomo dall’aria mite che la fissava un po’ perplesso dietro lenti spesse come fondi di bottiglia, due buste in mano della spesa e un mazzo di chiavi in bocca, e tanto bastò a tranquillizzarla.  “Bene,” pensò, “tu non sparisci allora sparisco io. Guarda la mia magia, stronzo”, e in un attimo era a terra.
<<Mi scusi per la macchina, non volevo…però non ho fatto nessun graffio, vede?>>.
L’uomo intanto aveva posato a terra le buste e annuiva infastidito inserendo la chiave nella portiera. La aprì ed infilò i sacchetti dentro, sul sedile opposto a quello di guida. Il busto completamente disteso all’interno, un piede a mezz’aria tratteneva a stento un mocassino ottusamente rispettoso della legge di gravità, la voce gracchiante era filtrata dall’abitacolo:
<<Non ti preeeoccupare, è già tutta ammaccaaata>>
<<Signore tutto bene, posso aiutarla? >>
<< È tutto a posto, grazie>>
Si sistemò nervosamente la camicia nei pantaloni, inserendo poi l’indice fra il tallone e la scarpa evitando di guardarla. Gli occhi, già minuscoli dietro le lenti spesse, erano due trattini di matita fissi nel vuoto. Accese il motore.
<<Posso chiedere una cosa? >> Le mani dell’uomo si aprirono per un attimo lasciando il volante. 
<< C’è uno là in fondo che guarda sempre…non ho paura però…>>
<<…però? >>, spazientito. La ragazza si fece coraggio:<<può darmi un passaggio fuori dal parcheggio? Poi non disturbo più…>>



La macchina percorse lentamente le stradine interne del piazzale, fermandosi agli stop vuoti e segnalando le svolte come ad una lezione di scuola guida. Costeggiarono la balaustra. Galina, da dietro il finestrino, alzò il dito medio in direzione del tipo ancora appollaiato sulla ringhiera che non ricambiò la cortesia, mentre il sole finalmente faceva il suo ingresso trionfale sulla città dai monti ad est. L’abitacolo fu inondato di luce, rivelando una galassia di particelle di polvere fluttuanti intorno a loro. Un’ultima rampa, poi la strada principale: a destra il centro cittadino già completamente illuminato; a sinistra invece, abbandonati gli ultimi capannoni della zona industriale, la scena avrebbe presto ceduto il posto a paesaggi brulli di querce e terreni incolti per parecchi chilometri. La Skoda procedette ad una velocità via via più sostenuta nella direzione opposta a quella del sole. Il sistema pulviscolare interno all’abitacolo si spense immediatamente, producendo un brivido come una gelida via lattea lungo la spina dorsale della ragazza. 
<< Signore, ha dimenticato che io sono in macchina?>>
<<No>>. 


C’è un momento, prima che le cose accadono, in cui abbiamo la precisa percezione di quanto avverrà di lì a poco, una lampante predizione del futuro, solitamente derubricata a fantasia da una lieve scrollata di spalle, ma che rivive nell’istante esatto in cui il futuro si avvera nel modo in cui lo avevamo presagito.

Galina rivedrà, nel momento in cui accade, sé stessa immaginare quell’uomo che accosta, dopo aver messo la freccia, in uno spiazzo isolato; il timido volto contrarsi in un ghigno, tanto perfido quanto inaspettatamente nuovo; poi il respiro farsi pesante,sputare rabbiosamente fuori dalla bocca abbiette parole impastate di bava (<< …puttanella…maleducata…straniere…ve la cercate…troie… >>); rivedrà la cinta dei pantaloni slacciarsi, il bottone saltare con un piccolo gesto del pollice; la mano, oggetto astrattamente neutro  fino a quel momento, diventare un perverso, intrusivo strumento in cerca di spazio fra le sue cosce serrate, mentre l’altra le stringe la gola; rivedrà, nel momento in cui accade, sé stessa immaginare il suo corpo bloccato dalla paura, pronto ad accettare la morte.
Galina, in quegli istanti, si rifiutò di appartenere a sé stessa, cedendo il corpo all’orrore pur di salvarne lo spirito. La strega dell’est esaudì la sua preghiera. Un alito di vento gelido soffiò (neanche a dirlo) da est, mulinando brevemente intorno all’auto come in un balletto, sollevando e facendo ricadere al suo passaggio fazzoletti, preservativi ed altra sporcizia abbandonata. 
Trovò un pertugio nel finestrino e si infilò dentro. Svolazzando leggero sfiorò appena i sacchetti della spesa producendo un lieve fruscìo, cambiando poi repentinamente rotta verso la bocca spalancata della ragazza. Entrò. Estrasse il cuore pulsante dal corpo portandolo in aria, a circa cinque o sei metri in volteggio sull’auto:

......pumpum!.....pumpum!.....pumpum!.......pumpum!pumpum!.. pumpum!.....pumpum!.....

Trattandosi di una forza del bene, all’operatore della concorrenza l’incantesimo non era manifesto, per cui indulgeva nelle proprie maligne prerogative anche quando il povero cuoricino indicava, come un razzo di segnalazione, il pericolo sottostante, pulsando ininterrottamente dall’alto per eventuali (ed auspicate) forze del bene nei paraggi: una vittima, quel cuore pulsante, ma anche un testimone dell’atto immondo che si accorgeva, solo ora da quella posizione privilegiata, non le avrebbe risparmiato nulla…





Aspetta un attimo, – Rico ha abbandonato la carriera artistica, tavolozza e pennello giacciono in un angolo mentre mischia erba al tabacco, –riuscivi a vederti nell’auto tramite il tuo cuore che svolazzava liberamente in cielo? –
–Per la magia serve fede, sennò voi la chiamate…com’era la parola...ah, sì, metafora!
Il ragazzo strizza gli occhi, guardando un punto in alto sul muro come nell’atto di ricordare: –fammi pensare…cuori pulsantiii… no, non mi sembra! –sorrisetto sornione, leccando una cartina tenuta orizzontalmente fra le dita. – dalla balaustra ho visto la macchina entrare in quello spiazzo, mi è sembrato strano, tutto qua –
–Tu non lo sai, ma sei magico. –

Beh, io sarò anche magico ma l’attrezzatura del vecchio per niente! – la mano tenuta davanti alla bocca a mo’ di pistola, soffiando una nuvoletta di fumo sull’indice allusivamente afflosciato verso il basso. –Non avevo niente da fare quella mattina…. –

Per Rico, quella mattina al centro commerciale era nient’altro che una figlia spuria, l’ennesima, delle sue notti debosciate passate a bere e fare baldoria con i disperati di volta in volta raccattati all’uopo. La sera precedente era stato il turno di due trapezisti gemelli, giovani rampolli di una famiglia circense stanziata a non più di due chilometri dalla balaustra su cui sedeva in quel momento. 
I ragazzi, due gocce d’acqua, dopo aver bloccato il fiato in gola a quattrocento piccole, paganti bocche spalancate con il loro repertorio classico, incluso di due bis ed un’uscita extra non concordata precedentemente, erano in città a scaricare la tensione ed alleggerirsi un po’le tasche. Uno dei due era inchiodato al bancone dell’unico locale ancora aperto, fuori il vento suonava la sua sinfonia attraverso uno strumento di muri squarciati, finestre mancanti e tegole rotte sbattute dalle raffiche sulle impalcature metalliche. All’interno luci verdi, graffiti messicani alle pareti, un barman in balìa di qualche demone degli anni ‘80 che preparava cocktail shakerandoli al ritmo di Love Will Tear Us Apart, una quindicina di avventori stracotti – compreso Rico in un angolo – che per lo più si facevano gli affari propri; Mirco (di seguito: La Goccia Sbronza) tracannava shortini da un ora importunando qualsiasi cosa gli passasse a tiro. Suo fratello Marco (di seguito: La Goccia Sobria) cercava di tenerlo lontano dai guai.

La Goccia Sbronza: [tenendosi a malapena sullo sgabello, in direzione di una ragazza che si avvicina] <<Ehi bella, dove vai?... rispondimi dai, sai chi sono io? Sono un Orfei, Mirco Orfei, hai capito: Ooorrrfeeeiii!!>>
La Goccia Sobria: [stringendo suo fratello per un braccio, perentorio] <<Smettila Mirco!>> 
La Goccia Sbronza: [ancora in direzione della ragazza, indifferente al fratello] <<E girati, cazzo,  mica  ti mangio…dico a te, dove lo porti quel bel culo?>>                                                        
Ragazza: [senza fermarsi] <<Al cesso>>
La Goccia Sbronza: <<Al cesso, ok…vedi che con un po’ di educazione si può parlare civilmente?Ehi, ma dove vai? Perché non ti fermi, ce l’hai la patente per quelle chiappe?>>  
Ragazza:<< Vaffanculo zingaro di merda >>
[La ragazza entra in bagno chiudendosi la porta dietro con vigore. Sbam!!! Il rumore, come una fucilata, risveglia improvvisamente il locale sonnecchiante. Il barman continua come se niente fosse a preparare cocktail sulle note di Mirage, Siouxsie And The Banshees.]
La Goccia Sobria: <<Smettila di fare il coglione, fra un po’ci cacciano, se non ti fai ammazzare   prima>>
La Goccia Sbronza: <<Ok, va bene>> [E indicando la porta del bagno a voce alta]: <<ma dillo anche a quella troia!>>
La Goccia Sobria: <<E poi…Orfei non puoi più dirlo! Capito?>>
La Goccia Sbronza: <<Vaffanculo, ho capito! Un brindisi alla vecchia, che si faccia una tomba d’oro  con tutti i soldi!>>  
[scolando l’ennesimo shortino]



Rico intanto si accostò al bancone dopo aver urtato neanche tre tavoli e calpestato a malapena un paio di piedi, di cui nessuno che avesse prodotto urla particolarmente insostenibili per le sue orecchie. 
Un record, per chi come lui aveva trasformato in armonica danza i maldestri spostamenti di un ubriaco, facendone una disciplina che nella sua mente aveva attitudini semi-olimpioniche. Ma questa era ovviamente l’opinione di Rico sbronzo: partecipante, giudice e spettatore unico di quella disciplina. Per questo, ed altri motivi inerenti alcune pratiche non troppo legali andate a buon fine durante la giornata, quella sera era particolarmente di buon umore, e niente avrebbe potuto rovinar… 

La Goccia Sbronza: [indicando il piede di Marco sotto quello di Rico] <<Stronzo, puoi togliere  
gentilmente il tuo piede da lì sopra?>>
Rico: [sorpreso, poi deluso nell’accorgersi del terzo piede che manda in fumo il suo record] <<Oh…scusa, ma non hai neanche urlato>> [fra sé e sé, udibile] <<Cazzo…addio record>>
La Goccia Sbronza: <<Ma di che cazzo parli? Vuoi togliere il piede o no?>>
La Goccia Sobria: [guarda il suo piede e finge di stupirsi, poi verso suo fratello, affabile] <<Mah…   non me ne sono neanche accorto! Tranquilli, non è successo niente…>>
La Goccia Sbronza: <<Smettila per una volta! Questo coglione si è addormentato sul tuo piede e ti va bene?>>
La Goccia Sobria: <<Smettila tu, non sto dicendo che mi va bene, sto dicendo che non me ne sono accorto…>>
Rico: [rivolto al pubblico, sbiascicando. Le voci intorno a lui dapprima si confondono, poi scemano. Tutto resta sospeso nel tempo, ad eccezione del barman, che versa nello shaker rum bianco (daiquiri? pina colada? cuba libre?) da una bottiglia rotante piombata dall’alto, saldamente catturata al volo. La presa è morbida, ma virile allo stesso tempo: un vero professionista. Il ritmo è quello dei Bronski Beat, nell’esecuzione della loro Smalltawnboy]: <<Eccoci di nuovo, lo vedo  doppio!Per  giunta uno buono ed uno cattivo. Forse la dovrei smettere per un po’ con questa vita, ma provateci voi a restare sobri in questa città! Vi sfido. Questo qui, cari miei, non è il set di un film, dopo questa scena non andrò a sedermi su di una sedia con il mio nome scritto sopra. Provate a girare l’angolo se non mi credete, non troverete una troupe asse…assei…assiepata fra i cavi con le loro attrezzature: “un po’ più basse quelle luci!”, “Forza ragazzi con quelle tegole rotte!”, “Lucia smettila di parlare, sei immobile, non hai letto il copione?” […] No, se girate l’angolo troverete solo desolazione e pisciate su macerie, puntinate da lucette rosse come in un cimitero. E non ditemi che questo non è un segnale della futura destinazione d’uso della città. E poi, pensate che adesso prenderò la mia dep…dela…decappottabile rossa fiammante e andrò    ad un party esclusivo con la mia fidanzata  strafiga? No. Cercherò un passaggio – mi hanno ritirato la patente – e se lo troverò tornerò nella mia casetta antisismica a vomitare nel mio bagno antisismico. Il mio vicino ma… mad… magrebino si sveglierà e mi ricorderà bussando sul muro di essere un lavoratore lui, e che si alza presto per sfamare i bambini…un lavoratore…bambini!! [crescendo]Gli stessi bambini che mi buttano giù dal letto strillando alle sette e mezzo del mattino, che mangiano quella roba che io non darei neanche al mio cane! Sia chiaro, non ho niente contro di loro! Ma quella roba fa schifo, puzza, e se io non lavoro è colpa sua che ci va al posto mio! [pausa. A misura che il disco scema, il rumore del vento cresce. Si innesta con le note di the waiter no.2, The Black Heart Procession. Rico mette una mano a conchiglia sull’orecchio, forti spifferi muovono realmente i lampadari e le foglie di una pianta all’angolo] Sentite? Questo non me lo sto inventando, lo sentite questo vento? Lo vedete? Vedete che non la smette di usare la mia città per le sue prove della sua privata, personale orchestra dell’orrore? Non è l’effetto di un fonico: è reale, e vuole farmi impazzire, come questo tizio qui davanti a me, che pretende di fottermi il record raddoppiando come il premio di un merdoso quiz televisivo. Ma io sono un fro…un pros… un professionista, esco all’Aquila da quando Ju Boss stava dall’altro lato della strada, non mi faccio fottere da qualcuno che non esiste. Non ci credete? Ve lo dimostro subito, con una prova male…mache… matematica, che lo farà sparire in un attimo…>>[allungando la mano e strizzando il naso di Marco, poi il buio, sipario.] 




Aprendo gli occhi, Rico poteva vedere nella penombra un omino baffuto ammiccare da un poster appeso al muro: la sua testa china fra le fauci spalancate di un leone sembrava un dettaglio lontano dall’ impensierirlo.
La debole luce del giorno appena incominciato filtrava ingiallita attraverso l’unica finestra del locale; chi si era preso la briga di inchiodarci un telo di cellophane, scricchiolante per le continue sferzate del vento fuori, non aveva tolto il vetro rotto dentro, la cui ragnatela di incrinature raggiungeva i bordi esterni a partire da un buco nel mezzo.
Dall’odore presente all’interno della stanza (una vecchia roulotte, ora poteva vedere), nessuno ci metteva piede da un pezzo, lasciando alla polvere il compito di nascondere le macchie di caffè sulla moquette logora e gli scarabocchi verdi e rossi dei bimbi sul linoleum effetto legno; le ammaccature, i graffi ed ogni altro aspetto della precedente vita di quel posto. La brandina però aveva lenzuola pulite: Rico poteva sentirne il fresco profumo di lavanda inspirando attraverso i grumi di sangue secco nelle narici. 
Testò le condizioni del setto nasale dolorante premendolo leggermente sulla stoffa del cuscino. Una fitta lancinante lo fece alzare di scatto sul busto, lasciando un calco insanguinato del suo viso a guardarlo dal sudario. Cosa era quel posto? Chi ce lo aveva portato? Chi gli aveva ridotto la faccia in quel modo? L’altro Rico sembrava ridere dal cuscino. Si mise in piedi a fatica. I postumi della sbronza lo stritolarono subito, dopo due o tre passi, obbligandolo a puntarsi con le braccia alle pareti mentre tentava di raggiungere un microscopico bagno in cui provò a sistemare il volto tumefatto. Con la fortuna che lo contraddistingueva la luce non si sarebbe mai acc… (click, perfettamente funzionante), dal rubinetto sarebbero usciti al massimo degli scorp… (ehi, era anche calda!), e non ci sarebbe stato nulla per medicare le fer… (una cassetta del pronto soccorso colma di garze, cerotti e tinture di iodio sembrava aspettarlo da sempre attaccata al muro). 
Mezz’ora dopo era ripulito e disinfettato, una fasciatura copriva il suo naso girando dietro la nuca; la testa (beati i vent’anni) andava già molto meglio, lo stomaco era vuoto. Aprì la porta della roulotte e fu fuori. Prima ancora di vedere qualcosa del mondo esterno fu investito da una raffica di vento che lo attaccò alla parete della roulotte, poi ebbe chiaro ciò che l’intuito presagiva ormai da tempo.

Già a quell’ora del mattino un frenetico lavorio imperversava sull’accampamento del circo, persone piccole come formiche gettavano corde dalla sommità di un grande tendone a uomini in basso, che tentavano di rimetterne in asse i pennacchi piegati dal vento. Altri erano impegnati a correre qua e là per raccattare materiale sparso in giro, altri ancora invece a scaldare grossi pentoloni d’acqua, passati poi ad un bimbo di cinque o sei anni che dalla sommità di una scala ne versava il contenuto fumante sul dorso di un povero elefante indiano tutto rattrappito dal freddo. 
Una donna sulla cinquantina, che lo aveva fissato a lungo dalla scala di una roulotte nuova, grande forse il doppio di quella da cui era uscito, era sparita all’interno dopo un breve cenno con la testa. 
Rico attraversò il piazzale. Una dozzina di svolazzanti macchie di colore puntinavano l'alba grigia, erano magnifici esemplari di pappagalli schiamazzanti fuori da una voliera, caduta ed aperta su un fianco. Che dubitassero dell'importanza attribuita alla libertà da chi gliela negava, o del concetto stesso, o che più semplicemente non si ponessero il problema, era chiaro dai movimenti: una riproduzione perfetta della loro vita in cattività, circoscritta in brevi tragitti aerei limitati da invisibili sbarre alle quali non riuscivano ad aggrapparsi. Due sparuti dromedari, impalati in mezzo ad un vicino campo di rugby, venivano sospinti a fatica verso l’uscita da un uomo disperato in tuta, rabbiosa versione clownesca di Noè senza più il controllo dell’arca: filtro di sigaretta maciullato fra i denti, grida incomprensibili, cerone impastato a sudore, scolato sui glutei delle bestie che non ne volevano sapere di muoversi. Forse l’idea era buona per farci un numero quando tutto sarebbe ritornato a posto. Per il momento, il vento rendeva vani gli eccezionali sforzi di tutti. 
Entrando nell’altra roulotte Rico trovò la donna davanti un caffè,immersa nella penombra. Tutto – dai mobili, ai pensili, ai quadri alle pareti, alla rivista aperta, abbandonata sul bracciolo di un divano in fondo, al piccolo carro siciliano di fianco alla maschera veneziana, alla torre di Pisa, ad un paio di Colossei di diverse misure, a due pupi che incrociavano le armi in singolar tenzone, alle altre innumerevoli testimonianze di una vita in strada sparse ovunque – era prigioniero della propria forma, la cui natura inanimata, continuamente bombardata dal fascio di luce  di un televisore acceso, era messa in dubbio  da una vitale attività di variazioni cromatiche interna ai perimetri degli oggetti. La sua faccia, immobile, non faceva eccezione. Non tolse gli occhi dal suo programma televisivo neanche quando le fece un cenno di saluto. 
Dentro lo schermo, una bionda patinata esponeva i suoi problemi di coppia ad un pubblico inferocito. Il marito di fianco dissentiva, braccia incrociate e profondi dinieghi del capo in favore di telecamera. Fuori, la donna spinse una tazzina vuota in direzione del ragazzo, indicando la moka fumante del caffè. 
<<Io…>>
<<Eri svenuto, mio figlio Marco ti ha portato qui.>> 
<<Grazie >>
La donna in tv continuava ad arringare il pubblico con accuse di ogni ordine e grado rivolte al marito, quella fuori a torturare un tovagliolo di carta fra le mani. Rico non era in grado di associare l’attività frenetica di quelle dita al volto sopra di esse: una lapide.
<<Come ti chiami? >>
Glielo disse.
<<Prendi dei biscotti, avrai fame. Li faccio io>>, allungando il piatto verso il ragazzo.
<< Si, grazie signora, ho una fame da lupi>>
 …i profondi dinieghi si trasformarono in uno scatto repentino del marito, che tolse il microfono dalle mani della bionda patinata. La signora versò il caffè nella tazzina di Rico, il tovagliolo informe giaceva abbandonato sul tavolo.
<<Quella faccia invece è opera di Mirco, il gemello. Una testata>>
Quindi erano due. Fottiti, record del cazzo! <<…Niente, signora>>
<<Ti fa male?>>
<<No>> mentì, <<quasi non lo sento>>
…la bionda patinata intanto era corsa fra il pubblico, palesemente orientato in suo sostegno, per piangere vere lacrime sul decolleté ingioiellato di un’anziana. Un fiumiciattolo screziato di rimmel scorreva sulla sua pelle rugosa, ripreso in primissimo piano da una telecamera, indugiante, a cinque centimetri dall’enorme seno. Solo ai singhiozzi della bionda era permesso, momentaneamente, di interrompere l’intervento ex cathedra della vecchia, altrimenti ascoltato nel tipico, religioso silenzio riservato ai leader, o quantomeno ai capi corrente; un profluvio di giudizi sommari, in direzione del marito, legati ad incontrovertibili caratteristiche espressive ed altri aspetti del viso che anche Lombroso sarebbe stato felice di analizzare, e che presto l’avrebbero condotta verso l'unica, irrevocabile sentenza. La donna fuori avvicinò la tazza alla bocca, soffiando quando si accorse che il caffè scottava ancora.
<<Dai, prendi un altro biscotto, non farti problemi>>
<<Nessun problema signora, grazie>>, scegliendone uno più grande degli altri <<Il cuscino si è sporcato di sangue>>
<<Non preoccuparti, cambierò le lenzuola>>
…al marito veniva intimato di lasciare immediatamente lo studio. Il suo orgoglio però glielo impediva, costringendo la conduttrice a farlo scortare fuori da un paio di energumeni passati casualmente da quelle parti. La tv si spense, la signora continuò a parlare guardando lo schermo nero.
<< Quella roulotte non la usiamo quasi più da quando abbiamo questa, lì sono cresciuti i miei figli. È piccola, ma si stava bene, eravamo felici >>, accennando un microscopico sorriso che non coinvolse gli occhi.
<< Anche il bagno è messo male… >>
<< Siete tutti così gentili alla luce del giorno, poi chissà cosa vi prende…Anche il mio Mirco è un bravo ragazzo…>>
<< Si, signora, non ho dubbi>>
<< Sta passando un brutto periodo, a dire il vero tutti… >>   

La notizia era piombata sul tendone rosso e blu del circo da due settimane, deflagrando come una bomba sui loro giovani corpi di trapezisti, i cui resti sarebbero rimasti sparsi sulla pista, in attesa di ricomposizione, per molto tempo a venire. Ricomposizione che non sarebbe avvenuta per mano di loro padre: se non l’armatore indiretto della bomba, quantomeno l’unica persona della famiglia a conoscenza dell’imminente pericolo. 
La conseguenza immediata dell’esplosione, la prima di un perverso effetto domino che sembrava lontanissimo, se non impossibile dal risolversi, obbligò il genitore a coprire metà della grande insegna luminosa sovrastante il tendone, oscurandola il giorno stesso con pezzi di telo impermeabile di una vecchia copertura dismessa, e poi a realizzarne una nuova, senza le cubitali lettere del cognome; gli ultimi effetti, in ordine di tempo, erano la sbronza di Mirco ed il naso rotto di Rico. 
Non erano più Orfei. Anzi, a detta di una sentenza del tribunale di *****, non lo erano mai stati. Le cause, intentate da Madame Moira in persona verso una pletora di piccoli circhi sparsi su tutto lo stivale –che secondo lei si fregiavano indebitamente del nobiliare rango Orfei– non facevano prigionieri fra artisti ed impresari, consapevoli o meno della loro non orfeità. Il padre, domatore di lungo corso avvezzo più alle tigri che alle spiegazioni, liquidò le loro domande con un colpo di frusta che lasciò i ragazzi, se possibile, in un’indeterminatezza ancor maggiore. 
A quel punto era come guardare indietro, dopo un lungo viaggio, e scoprire che tutta la strada percorsa fino ad allora era svanita, o, peggio, non era mai esistita; con il timore, più che fondato, che anche quella da percorrere verrà sgretolata immediatamente dopo il passaggio. Era difficile adesso per i ragazzi, prima dell’esercizio, incrociare gli sguardi come sempre avevano fatto sin da bambini, ritrovarsi nei nuovi sé stessi, nelle sembianze apparentemente identiche all’esterno ma profondamente ed indelebilmente mutate all’interno; lanciarsi nel vuoto, l’uno verso l’altro, con il timore non di cadere (per quello c’era la rete), ma di una sorte ben peggiore, quella di non riconoscersi, di perdersi nello sguardo di ogni trapezista non Orfei incontrato nella loro vita. 
Per loro era diverso. Loro erano diversi, quel cognome era diverso. Era il fiato caldo di un compagno nella trincea gelata, o la granata caduta a dieci passi da te. Era il luccichio di un gallone sui volti logori dei superstiti, passati in rassegna dopo la battaglia, o una camionetta che squarciava il silenzio verso l’aeroporto militare, abbandonando una notte sconosciuta alle proprie spalle. Era l’abbraccio di una madre fra le rose di un giardino, uguale a quando te n’eri andato, era tornare a casa davvero, e non in sogno come ogni notte da mesi. Ma quella verità non apparteneva più ai ragazzi: la nuova, marchiata sulle loro carni dal colpo di frusta paterno, signore e signori, era che giorno dopo giorno la presa si sfaldava inesorabilmente, e la rete sarebbe servita a poco, a salvarne i corpi e nient’altro. Non aveva più importanza, adesso, ciò che si era o si credeva di essere stati, e quale posto si era occupato prima: doveva avere importanza solamente trovare una nuova strada. Per il momento, purtroppo, si procedeva a vista, in un presente senza domani e senza ieri, in definitiva senza uscita.

<<Credo che voi potete capire…il terremoto intendo>>
<< Beh, anche voi col vento stanotte…questa città porta sfiga>>
<< Il tendone si raddrizza…>>, fissando mestamente un punto sul muro dietro la testa fasciata del ragazzo. Rico prese un altro biscotto, pensando che il suo naso probabilmente sarebbe rimasto storto…


La storia poi si srotolò nella direzione che conosciamo: Rico lasciò l’accampamento un po' più sazio di come ci era entrato, ma con un naso rotto che prima non aveva. Raggiunse a piedi il vicino centro commerciale e si appollaiò sulla balaustra, aspettando il primo fesso che andasse nella direzione di casa sua. Guardò a lungo quella strana ragazzina, che usava una macchina come il salotto di casa, e continuò a guardarla anche quando si lavorò il tizio della macchina per scroccare un passaggio. Che tipa! Non le tolse gli occhi di dosso neanche quando le mostrò il dito medio passando ad un metro da lui, seguendo con lo sguardo ed un sorriso ebete la macchina che si allontanava. Era stregato. Dopodiché un nuovo sole sulla città ferita, un nuovo giorno allontanava sempre più quella terribile notte dal presente. Le gru pigre scandivano il ritmo lento ma inesorabile della rinascita, la luce lentamente guadagnava spazio sulle tenebre. Il vento finalmente era cessato, mentre i titoli di coda scorrevano lenti sull'orizzonte illuminato della città…ma la macchina imboccò la direzione sbagliata. Rico aspettò lo stop del regista, che non arrivò, poi si gettò a capofitto nel buio, seguendo la macchina entrata in un anfratto. La raggiunse rischiando un infarto. Nella scena successiva lo sportello era aperto, Rico incrociava lo sguardo di Galina raggomitolata all’interno, mentre tempestava di calci il tizio occhialuto steso fuori dall’auto con i pantaloni abbassati. Le sorrise colpendolo ripetutamente ai fianchi. L’uomo rantolò, fiottando sangue dalla bocca prima di svenire. Solo allora Rico si fermò, lasciando l’uomo a terra per prepararsi al gran finale. Raggiunse Galina ancora acquattata dentro l’auto, stendendo una mano verso di lei. La ragazza lentamente uscì dall’auto, stese la sua e…
…e passala sta canna! –
Rico sobbalza, poi stende una mano verso di lei. La ragazza allunga la sua e prende il tubicino fumante. La pausa è finita, si torna al lavoro. Un vecchio ha offerto ai ragazzi cinque euro per ogni libro integro che fossero riusciti a portargli. Dieci se avessero trovato il primo volume di Arcipelago Gulag. C’è una montagna di libri da setacciare prima di sera.