Di Emilio Fusari_____________________
Accade
a volte che piccoli luoghi di provincia assumano temporaneamente, per talune
motivazioni, carattere di centralità nell’interesse generale. Una notte
d’aprile di dieci anni prima un terremoto sconquassò la città.
La polvere
ancora non si depositava, rendendo invisibile la devastazione di case distrutte, tetti crollati, di travi spezzate e fioriere
attaccate alle ringhiere senza più il balcone, ferri nudi aggrovigliati, di
profonde crepe sui muri ancora in piedi, come gli scarabocchi di un dio
annoiato al telefono, di persiane incardinate a stipiti penzolanti
dai muri, di cavi elettrici tranciati, che sfolgorando nel buio illuminavano dalla
strada l’interno di palazzi sventrati, diapositive di libri sui comodini che
nessuno avrebbe terminato, di panni stesi ad asciugare che nessuno avrebbe
ritirato, di piatti della sera non sparecchiati, detriti fra i resti di pollo, di inquilini del terzo piano che
riconoscevano, nell’ammasso dei solai crollati l’uno sull’altro al piano terra,
un’ anta del proprio armadio o un braccio del vicino dall’ orologio, di gabinetti
sospesi nel vuoto, a dodici o quindici metri da terra, di macchine in strada schiacciate da montagne di
macerie, dove qualcuno aveva pensato, erroneamente, di cercare riparo; le
persone che scavavano a mani nude fra i
resti: nocche insanguinate, polpastrelli lividi, insensibili ormai alla
durezza dei frammenti estratti, seguendo
flebili grida o presunte tali in un silenzio irreale, squarciato a tratti
dalle sirene dei mezzi di soccorso, partite
verso l’ospedale cercando di arrestare, ad ogni costo, la volontà di esalare
l’ultimo respiro a poveri diavoli restituiti alla vita da una tomba di macerie,
chiamata casa fino ad un’ora prima; i lampeggianti che tingevano di blu la
superficie dei laghetti creati da tubature idriche rotte, dove si abbeveravano cani
lupo che sarebbero stati obbligati, nell’immediato futuro, a stare diciotto o
venti ore al giorno naso a terra, ma che fortunatamente nessuno avrebbe mai
obbligato, o potuto obbligare, ad un coinvolgimento emotivo di tipo umano,
cosicché nelle pause sguazzavano divertiti nell’ acqua; l’odore di gas rubava
ossigeno alle persone che alle quattro del mattino, sbalzate via dal letto, ma
anche dalle stanze e dai piani in cui dormivano, si chiamavano, spesso senza
risposta, fra le rovine. Intanto, la mastodontica macchina dello spettacolo
arrivava da lontano: vibrando poggiò il suo piede elefantiaco, noncurante delle
proprie dimensioni, spremendo quel posto già martoriato, dilatandone i confini
nello spazio. Gli schizzi si sparsero ovunque, finanche a cospargere una dacia
sperduta nella vastità siberiana.
Scendendo
dall’autobus Galina calcola che in cinque minuti saranno arrivate in centro – con
un quarto d’ora avrebbero raggiunto l’altro capo–, anche se la città in quegli
anni si era moltiplicata a dismisura ad ogni servizio televisivo, video di You
Tube e post di Facebook, arrivando ad occupare nella sua mente uno spazio
infinitamente maggiore di quello reale. Sua sorella Iliana, trecce rosse
saltellanti dietro di lei, sette anni il prossimo mese, continuò a pettinare la
sua bambola preferita per un minuto o due vedendo Galina uscire sbattendo la
porta, prima di realizzare che non c’era nessun altro in casa e prima ancora di
rivederla precipitarsi nuovamente dentro a recuperarla, perdendo l’autobus.
–Galya
mi fai male, lasciami il braccio –
–Ily
siamo in ritardo –
–tu
sei in ritardo, io ho fame –, incrociando le braccia, puntando le Lelli kelly
para lampeggiante a terra. Galina torna indietro, sguardo da killer comprensivo
che vuole ascoltarti prima di ucciderti, le accarezza dolcemente il mento – hai
fame piccola? –
–mmm,
mmm…–
–vuoi
mangiare? – micro sì con la testa –oh, e
cosa puoi mangiare adesso, vediamo… –
–voglio
la pizzetta–
–la
pizzetta? Mmm…non ce l’ho la pizzetta, va bene questo? – tirandole fortissimo
un orecchio. La bimba scoppia in lacrime –lasciamiii, mi fai male–
–e
allora cammina, Rico è un’ora che aspetta–
Sotto
il porticato di marmo in stile ventennio Rico, gigante dagli occhi miti,
telefono in mano e birra nell’altra, tempesta di messaggi Galina, nessuno dei
quali spuntati. L’ultimo vibra sulla natica della ragazza quando già lo vede.
–Ehi,
siamo qui–Rico alza lo sguardo dallo schermo, beve un sorso di birra e si
asciuga la bocca con la manica.
–C’è anche Greta Thunberg? Cazzo, non ho
portato l’ombrello –.
Micro calcio lampeggiante di Iliana sullo stinco di Rico.
– Smettila scemo, non sapevo dove lasciarla, la zia era uscita–, alzandosi
sulle punte per toccare la bocca di Rico con la sua, poi prendendo la birra
dalle sue mani e bevendo un sorso. Rico vuole la bottiglia indietro, ma Galina
la nasconde sorridendo dietro la schiena , costringendo il ragazzo ad un abbraccio forzato per riprenderla. Lui
ruota l’enorme braccio come una gru e stringe ragazza, mano e birra in un colpo
solo, le bocche si trovano ancora.
–Ehi, teneroni, io ho fame, capito? Faaameee –
Cinque euro si materializzano improvvisamente
davanti agli occhi della bambina, che allegra trotterella verso un bar lì di
fronte a prendere una pizzetta al taglio ed una Fanta. Tornando li trova
affaccendati grossomodo nelle stesse pratiche, con solo poche varianti: la mano
di lei sulla spalla, la birra appoggiata sulla balconata, la lingua di lui…
Iliana è bravissima nell’“aguzzate la vista”, ogni giovedì aspetta con ansia la
zia rientrare dal lavoro per rubarle La settimana enigmistica: da quando va a
scuola riesce anche a completare sensatamente la pista cifrata. La zia invece
usa la rivista come il surrogato di un corso di italiano, anche se fino ad ora,
per spazzare i pianerottoli, non le è servito moltissimo sapere che un
paracadute può essere chiamato “dispositivo di salvataggio usato dagli aviatori”,
ma non si sa mai. La bambina ha ottenuto ciò che voleva, si mette a sedere
felice sulla balconata guardando il film d’amore davanti a lei, mangiando e
succhiando rumorosamente la Fanta.
La versione moderna di questa favola senza tempo
vuole Galina di umili origini sulle soglie del millennio, meglio ancora se in
una dacia solitaria persa nella vastità siberiana sferzata dall’inverno polare;
un termometro costantemente sotto la soglia della decenza e vento incessante a
picchiare sui vetri, fumo e cenere negli gli occhi arrossati della povera
famiglia in posa davanti al fuoco per un disperato selfie della sopravvivenza. Le
origini di Rico invece sono locali, in uno di quei graziosi paesini
dell’hinterland sferzati da un inverno che ha poco da invidiare a quelli di Galina
(almeno per la temperatura).
Nella foto ingiallita che tiene sempre nel
portafoglio, in cui ha cinque anni e viene sorretta da una giovane donna
sorridente (la madre), la piccola Galina non ha nulla dell’intemperanza odierna,
ampiamente acquisita dopo sette anni di irreversibile occidentalizzazione. A
nove anni è una bimba bellissima ed educata, che ogni giorno percorre a piedi
sei chilometri per raggiungere la scuola nella vicina cittadina di *****, superando
tutte le prove che il fato siberiano le mette innanzi senza ritegno. Non orsi,
lupi o serpenti, ma scarpe bucate e nottate digiune, affrontate dalla piccola
con stoica abnegazione, sfidando ogni pronostico che la inchioderebbe, come
milioni di suoi coetanei nella burrasca del postcomunismo, ad un futuro di fame
e di nulla travestito da libertà. Ma lei è una bambina precoce: a quindici anni
l’adolescenza è un capitolo archiviato, è tempo di maturità e realismo, quindi
di un volo low cost San Pietroburgo/Roma, solo andata. Di lì L’Aquila, da una
zia senza figli che non sapeva neanche di avere; la quale, come premio per aver
manifestato gioia all’ idea di poter crescere Galina in un mondo che le avrebbe
garantito un futuro a sua detta <<radioso>> (come “di chi
emana un’intensa luce”, sette verticale), dopo tre anni si vide recapitare un
fagotto contenente la piccola Ilenia appena svezzata, con tanti saluti.
–È il suo incantesimo, ha gettato una maledizione
su tuuutta la Russia, anche il terremoto è opera sua …–
sussurra piano Galina, sgranando gli occhi in direzione della sorellina e disegnando
sul “tutta” un grande cerchio in aria con le braccia, chissà quanto recitando.
La bimba aspira rumorosamente una sorsata di Fanta dalla cannuccia con occhi
impassibili, ha visto It l’anno scorso, di nascosto con una compagna di classe,
ci vuole ben altro per spaventarla.
–Sua di chi? –
Galina non ha
visto It, questa roba l’ha autosuggestionata. Si guarda intorno per qualche
secondo, poche anime sotto il porticato. Poi prende un rossetto dalla borsa e scrive
frettolosamente qualcosa sulla colonna di marmo bianco appena ripulita, che si
presta benissimo allo scopo. Iliana estrae un telefono e scatta una foto, la
farà vedere alla sua compagna di classe domani:
Galina
non sa esattamente perché un attimo dopo si ritrova a correre lungo una
scalinata laterale (con Rico dietro di lei che porta sua sorella sotto
l’ascella come una palla da rugby), dato che il suo ultra sviluppato istinto di
sopravvivenza artico ha preferito la salvezza ad un’accurata analisi dei fatti.
Presto li metterà in fila arrivando al colpevole: è Rico, che ha fischiettato
indifferente guardando in aria, dopo che la sua bottiglia di birra, sibilando
dietro le orecchie delle ragazze, si è spaccata sulla colonna, un po’ più in
alto della scritta, facendo cambiare traiettoria ad un gruppo di passanti e
richiamando infine l’attenzione di due annoiati tutori dell’ordine,
affaccendati fino ad allora in una sbadigliante
verifica fra le differenze di orario degli orologi esposti in una
vetrina in fondo al porticato.
Ma quando i solerti funzionari arriveranno
sulla scena vedranno solamente una macchia come una medusa sul muro, i cui tentacoli
di birra, scolati a terra passando sulla scritta, cercheranno i cocci rotti
della bottiglia sparsi sul pavimento, in un disperato tentativo di rinascita.
Dopo due ore i
ragazzi sono in un edificio diroccato, una scuola d’arte cui dal
giorno del terremoto nessuno ha più messo mano. Iliana è stata riconsegnata non senza
capricci (ha consumato merenda? Certo zia) ma Rico è stato perentorio: troppo pericoloso.
La grande costruzione, un tempo snodo nevralgico e cuore pulsante dei
sogni di molti giovani aquilani, lentamente s’è abbandonata
all’abbraccio soverchiante della natura, scomparendo quasi fra le
fronde degli alberi e l’erba incolta che si riappropria degli spazi
di suo dominio. I ragazzi saltellano agili fra le insidie che conoscono perfettamente: detriti, libri,
quaderni, topi in fuga, banchi, cattedre ed armadi ammassati
confusamente davanti a loro, fiancheggiano pareti semidistrutte che
svelano, impudiche, squarci di stanze che avrebbero dovuto celare, o
altre ancora miracolosamente al loro posto solo grazie ad uno
scheletro di fili elettrici, che vibrano pericolosamente al
passaggio.
–Sei stupido! – Galina calcia un registro di
classe aperto davanti a lei facendolo volare: sembra, per un secondo, un
gabbiano in immobile attesa sul mare, prima di perdere la spinta dell’aria e
rovinare giù, trasformato in un nuovo, indistinto caos polveroso. –Io non
voglio tornare in Russia per le tue scemenze! –
Rico, una
tavolozza in mano ed un pennello nell’altra, le risponde con la
bocca a culo di gallina, nell’imitazione di quello che pensa sia un
francese.
–Mes scemenz? E allora toi, con questa storia della Bab…–
ma non finisce la frase, Galina si scaglia immediatamente sul
ragazzo, tappandogli la bocca con tutte e due le mani.
–Non dire il suo nome, ti prego. –
Rico fa cenno di sì con la testa, e Galina lascia la presa. Torna la quiete.
Rico fa cenno di sì con la testa, e Galina lascia la presa. Torna la quiete.
Rico e Galina sono praticamente inseparabili da cinque anni, da quando
in una giornata come tante al centro commerciale lei si cacciò davvero in un bel casino. Siamo nella primavera del 2014,
post-sisma.Una mattina di aprile
se ne stava seduta, gambe incrociate e occhi socchiusi, sul cofano di una vecchia
Skoda parcheggiata nell’unico spicchio di sole della grande spianata
antistante. Un vento impetuoso aveva sparso quella notte immondizia, rami
spezzati e malevoli presagi sulla città ferita, scomparendo solo alle prime
luci dell’alba. Sebbene la giornata prometteva temperature miti, l’area era
reduce da una forte escursione termica, con l’umidità che imperlava ancora i
pali della luce e le cassette degli idranti del parcheggio. I negozi avevano
tirato su le serrande da qualche minuto ed il traffico era ridotto ad una manciata
di macchine pigre che venivano frettolosamente abbandonate nei posteggi più
vicini all’ingresso.
Solo la Skoda faceva eccezione. Era ferma infatti a due o
trecento metri dall’entrata, in posizione solitaria: curioso, se non si
considerava l’intenzione di chi ce l’aveva lasciata di rubare quell’unico
spicchio di sole per asciugarne la carrozzeria piena di macchioline d’acqua.
Galina sentiva il calore del motore spento da poco penetrarle le ossa attraverso
il cofano già asciutto, ricongiungendosi con il tepore del sole sulla pelle del
viso in un abbraccio termico, nel mezzo del quale lei era tramite e fine allo
stesso tempo.
La mattinata prometteva bene: presto l’avrebbe raggiunta una sua
amica per vedere insieme delle stoviglie e <<qualcos’altro di
veramente carino per la mia nuova casa che solo tu puoi scegliere>>, e poi sarebbero andate a mangiare fuori <<da vere amiche… non m’importa, sei come una figlia per
me…offro io>>, aveva necessità di
comunicarle <<una
certa cosa che inizia per effe e finisce per o, non ti fa dormire la notte ma
non è quello che pensi tu e fra sette mesi… Sìììììì…non lo dire ad alta voce…Nooo,
non sto piangendo…Sìììì sto piangendo…ci vediamo fra un’ora…>>. Click.
La sua amica era incinta. Galina assaporava
la novità ad occhi chiusi, ricacciando negli abissi più scuri un tenue, ma
reale spettro di gelosia, assecondando il quale presto sarebbe stata spodestata
dal rango di “come una figlia” a quello di zia o chissà che altra ipocrita onorificenza.
Ad ogni modo la gioia per quella notizia era reale, come anche quel ragazzo che
la fissava da un quarto d’ora dalla balaustra in fondo al parcheggio, che non
accennava a distogliere lo sguardo neanche quando lei lo sfidava apertamente
con occhiate ostili. Ma cosa aveva in faccia? Da quella posizione non ne era
sicura, ma non sembrava passarsela troppo bene… “Maniaco del cazzo,” pensò, “li
trovo tutti io”.Chiudendo gli occhi quello sparì, ma bastò riaprirli per confermare di
nuovo la sua presenza lì, appollaiato come un falco obeso. Li chiuse ancora,
questa volta strizzandoli forte: Treee…dueee… unooo…no, l’incantesimo era
sbagliato e il tipo non era scomparso, ma in compenso si era materializzato davanti
a lei un uomo dall’aria mite che la fissava un po’ perplesso dietro lenti
spesse come fondi di bottiglia, due buste in mano della spesa e un mazzo di
chiavi in bocca, e tanto bastò a tranquillizzarla. “Bene,” pensò, “tu
non sparisci allora sparisco io. Guarda la mia magia, stronzo”, e in un attimo
era a terra.
<<Mi scusi per la macchina,
non volevo…però non ho fatto nessun graffio, vede?>>.
L’uomo intanto aveva posato a terra le buste e annuiva infastidito
inserendo la chiave nella portiera. La aprì ed infilò i sacchetti dentro, sul
sedile opposto a quello di guida. Il busto completamente disteso all’interno,
un piede a mezz’aria tratteneva a stento un mocassino ottusamente rispettoso
della legge di gravità, la voce gracchiante era filtrata dall’abitacolo:
<<Non ti preeeoccupare, è già tutta
ammaccaaata>>
<<Signore tutto bene, posso aiutarla? >>
<< È
tutto a posto, grazie>>.
Si sistemò nervosamente la
camicia nei pantaloni, inserendo poi l’indice fra il tallone e la scarpa evitando
di guardarla. Gli occhi, già minuscoli dietro le lenti spesse, erano due
trattini di matita fissi nel vuoto. Accese il motore.
<< C’è uno là in fondo che guarda sempre…non ho
paura però…>>
<<…però? >>, spazientito. La
ragazza si fece coraggio:<<può
darmi un passaggio fuori dal parcheggio? Poi non disturbo più…>>
La
macchina percorse lentamente le stradine interne del piazzale, fermandosi agli
stop vuoti e segnalando le svolte come ad una lezione di scuola guida.
Costeggiarono la balaustra. Galina, da dietro il finestrino, alzò il dito medio
in direzione del tipo ancora appollaiato sulla ringhiera che non ricambiò la
cortesia, mentre il sole finalmente faceva il suo ingresso trionfale sulla
città dai monti ad est. L’abitacolo fu inondato di luce, rivelando una galassia
di particelle di polvere fluttuanti intorno a loro. Un’ultima rampa, poi la
strada principale: a destra il centro cittadino già completamente illuminato; a
sinistra invece, abbandonati gli ultimi capannoni della zona industriale, la
scena avrebbe presto ceduto il posto a paesaggi brulli di querce e terreni
incolti per parecchi chilometri. La Skoda procedette ad una velocità via via
più sostenuta nella direzione opposta a quella del sole. Il sistema
pulviscolare interno all’abitacolo si spense immediatamente, producendo un
brivido come una gelida via lattea lungo la spina dorsale della ragazza.
<< Signore, ha dimenticato
che io sono in macchina?>>
<<No>>.
<<No>>.
C’è un momento, prima che
le cose accadono, in cui abbiamo la precisa percezione di quanto avverrà di lì
a poco, una lampante predizione del futuro, solitamente derubricata a fantasia da
una lieve scrollata di spalle, ma che rivive nell’istante esatto in cui il
futuro si avvera nel modo in cui lo avevamo presagito.
Galina rivedrà, nel momento in cui accade, sé stessa immaginare quell’uomo che accosta, dopo aver messo la freccia, in uno spiazzo isolato; il timido volto contrarsi in un ghigno, tanto perfido quanto inaspettatamente nuovo; poi il respiro farsi pesante,sputare rabbiosamente fuori dalla bocca abbiette parole impastate di bava (<< …puttanella…maleducata…straniere…ve la cercate…troie… >>); rivedrà la cinta dei pantaloni slacciarsi, il bottone saltare con un piccolo gesto del pollice; la mano, oggetto astrattamente neutro fino a quel momento, diventare un perverso, intrusivo strumento in cerca di spazio fra le sue cosce serrate, mentre l’altra le stringe la gola; rivedrà, nel momento in cui accade, sé stessa immaginare il suo corpo bloccato dalla paura, pronto ad accettare la morte.
Galina, in quegli
istanti, si rifiutò di appartenere a sé stessa, cedendo il corpo all’orrore pur
di salvarne lo spirito. La strega dell’est esaudì la sua preghiera. Un alito di
vento gelido soffiò (neanche a dirlo) da est, mulinando brevemente intorno all’auto come in un balletto, sollevando e facendo ricadere al suo passaggio
fazzoletti, preservativi ed altra sporcizia abbandonata.
Trovò un pertugio nel
finestrino e si infilò dentro. Svolazzando leggero sfiorò appena i sacchetti
della spesa producendo un lieve fruscìo, cambiando poi repentinamente rotta verso
la bocca spalancata della ragazza. Entrò. Estrasse il cuore pulsante dal corpo
portandolo in aria, a circa cinque o sei metri in volteggio sull’auto:
......pumpum!.....pumpum!.....pumpum!.......pumpum!pumpum!.. pumpum!.....pumpum!.....
Trattandosi di una forza del bene, all’operatore della concorrenza l’incantesimo non era manifesto, per cui indulgeva nelle proprie maligne
prerogative anche quando il povero cuoricino indicava, come un razzo di
segnalazione, il pericolo sottostante, pulsando ininterrottamente dall’alto per
eventuali (ed auspicate) forze del bene nei paraggi: una vittima, quel cuore
pulsante, ma anche un testimone dell’atto immondo che si accorgeva, solo ora da
quella posizione privilegiata, non le avrebbe risparmiato nulla…
–Aspetta un attimo, – Rico ha abbandonato
la carriera artistica, tavolozza e pennello giacciono in un angolo mentre
mischia erba al tabacco, –riuscivi a vederti nell’auto tramite il tuo cuore che
svolazzava liberamente in cielo? –
–Per
la magia serve fede, sennò voi la chiamate…com’era la parola...ah, sì, metafora!
–
Il
ragazzo strizza gli occhi, guardando un punto in alto sul muro come nell’atto
di ricordare: –fammi pensare…cuori pulsantiii… no, non mi sembra! –sorrisetto
sornione, leccando una cartina tenuta orizzontalmente fra le dita. – dalla balaustra ho visto la macchina entrare in
quello spiazzo, mi è sembrato strano, tutto qua –
–Tu
non lo sai, ma sei magico. –
–Beh, io sarò anche magico ma l’attrezzatura
del vecchio per niente! – la mano tenuta davanti alla bocca a mo’ di pistola, soffiando
una nuvoletta di fumo sull’indice allusivamente afflosciato verso il basso. –Non
avevo niente da fare quella mattina…. –
Per
Rico, quella mattina al centro commerciale era nient’altro che una figlia spuria,
l’ennesima, delle sue notti debosciate passate a bere e fare baldoria con i
disperati di volta in volta raccattati all’uopo. La sera precedente era stato
il turno di due trapezisti gemelli, giovani rampolli di una famiglia circense stanziata
a non più di due chilometri dalla balaustra su cui sedeva in quel momento.
I
ragazzi, due gocce d’acqua, dopo aver bloccato il fiato in gola a quattrocento
piccole, paganti bocche spalancate con il loro repertorio classico, incluso di
due bis ed un’uscita extra non concordata precedentemente, erano in città a
scaricare la tensione ed alleggerirsi un po’le tasche. Uno dei due era
inchiodato al bancone dell’unico locale ancora aperto, fuori il vento suonava
la sua sinfonia attraverso uno strumento di muri squarciati, finestre mancanti
e tegole rotte sbattute dalle raffiche sulle impalcature metalliche.
All’interno luci verdi, graffiti messicani alle pareti, un barman in balìa di qualche
demone degli anni ‘80 che preparava cocktail shakerandoli al ritmo di Love Will
Tear Us Apart, una quindicina di avventori stracotti – compreso Rico in un
angolo – che per lo più si facevano gli affari propri; Mirco (di seguito: La
Goccia Sbronza) tracannava shortini da un ora importunando qualsiasi cosa gli
passasse a tiro. Suo fratello Marco (di seguito: La Goccia Sobria) cercava di
tenerlo lontano dai guai.
La
Goccia Sbronza: [tenendosi a malapena sullo sgabello, in direzione di una
ragazza che si avvicina] <<Ehi bella, dove vai?...
rispondimi dai, sai chi sono io? Sono un Orfei, Mirco Orfei, hai capito:
Ooorrrfeeeiii!!>>
La Goccia Sobria: [stringendo suo fratello
per un braccio, perentorio] <<Smettila Mirco!>>
La
Goccia Sbronza: [ancora in direzione della ragazza, indifferente al fratello] <<E
girati, cazzo, mica ti mangio…dico a te, dove lo
porti quel bel culo?>>
Ragazza: [senza fermarsi] <<Al
cesso>>
La
Goccia Sbronza: <<Al cesso, ok…vedi che con un po’ di
educazione si può parlare civilmente?Ehi, ma dove vai? Perché non ti
fermi, ce l’hai la patente per quelle chiappe?>>
Ragazza:<< Vaffanculo
zingaro di merda >>
[La
ragazza entra in bagno chiudendosi la porta dietro con vigore. Sbam!!! Il
rumore, come una fucilata, risveglia improvvisamente il locale sonnecchiante.
Il barman continua come se niente fosse a preparare cocktail sulle note di Mirage,
Siouxsie And The Banshees.]
La
Goccia Sobria: <<Smettila
di fare il coglione, fra un po’ci cacciano, se non ti fai ammazzare prima>>
La
Goccia Sbronza: <<Ok, va bene>> [E indicando la porta del bagno a voce alta]: <<ma
dillo anche a quella troia!>>
La Goccia Sobria: <<E
poi…Orfei non puoi più dirlo! Capito?>>
La
Goccia Sbronza: <<Vaffanculo, ho capito! Un brindisi alla
vecchia, che si faccia una tomba d’oro con tutti i soldi!>>
[scolando
l’ennesimo shortino]
Rico
intanto si accostò al bancone dopo aver urtato neanche tre tavoli e calpestato
a malapena un paio di piedi, di cui nessuno che avesse prodotto urla
particolarmente insostenibili per le sue orecchie.
Un record, per chi come lui
aveva trasformato in armonica danza i maldestri spostamenti di un ubriaco, facendone
una disciplina che nella sua mente aveva attitudini semi-olimpioniche. Ma
questa era ovviamente l’opinione di Rico sbronzo: partecipante, giudice e
spettatore unico di quella disciplina. Per questo, ed altri motivi inerenti alcune
pratiche non troppo legali andate a buon fine durante la giornata, quella sera
era particolarmente di buon umore, e niente avrebbe potuto rovinar…
La Goccia Sbronza: [indicando il piede
di Marco sotto quello di Rico] <<Stronzo, puoi togliere
gentilmente il tuo piede da lì
sopra?>>
Rico: [sorpreso, poi deluso
nell’accorgersi del terzo piede che manda in fumo il suo record] <<Oh…scusa, ma non hai
neanche urlato>> [fra sé e sé, udibile] <<Cazzo…addio
record>>
La
Goccia Sbronza: <<Ma di che cazzo parli? Vuoi togliere il
piede o no?>>
La Goccia Sobria: [guarda
il suo piede e finge di stupirsi, poi verso suo fratello, affabile] <<Mah… non me ne sono neanche
accorto! Tranquilli, non è successo niente…>>
La
Goccia Sbronza: <<Smettila per una volta! Questo coglione si
è addormentato sul tuo piede e ti va bene?>>
La Goccia Sobria: <<Smettila
tu, non sto dicendo che mi va bene, sto dicendo che non me ne sono accorto…>>
Rico:
[rivolto al pubblico, sbiascicando. Le voci intorno a lui dapprima si
confondono, poi scemano. Tutto resta sospeso
nel tempo, ad eccezione del barman, che versa nello shaker rum bianco (daiquiri?
pina colada? cuba libre?)
da una bottiglia rotante piombata dall’alto, saldamente catturata al volo. La presa è
morbida, ma virile allo stesso tempo: un vero professionista. Il ritmo è quello
dei Bronski Beat, nell’esecuzione
della loro Smalltawnboy]: <<Eccoci di nuovo,
lo vedo doppio!Per giunta uno buono ed uno
cattivo. Forse la dovrei smettere per un po’ con questa vita, ma provateci voi
a restare sobri in
questa città! Vi sfido. Questo qui, cari miei, non è il set di un film, dopo
questa scena non andrò a
sedermi su di una sedia con il mio nome scritto sopra. Provate a girare
l’angolo se non mi credete, non
troverete una troupe asse…assei…assiepata fra i cavi con le loro attrezzature: “un po’ più basse
quelle luci!”, “Forza ragazzi con quelle tegole rotte!”, “Lucia smettila di
parlare, sei immobile, non
hai letto il copione?” […] No, se girate
l’angolo troverete solo desolazione e pisciate su macerie, puntinate
da lucette rosse come in un cimitero. E non ditemi che questo non è un segnale
della futura destinazione d’uso della città. E poi, pensate che adesso prenderò
la mia dep…dela…decappottabile
rossa fiammante e andrò ad un party esclusivo con la mia fidanzata strafiga? No. Cercherò
un passaggio – mi hanno ritirato la patente – e se lo troverò tornerò nella mia casetta
antisismica a vomitare nel mio bagno antisismico. Il mio vicino ma… mad… magrebino
si sveglierà e mi
ricorderà bussando sul muro di essere un lavoratore lui, e che si alza presto
per sfamare i bambini…un lavoratore…bambini!! [crescendo]Gli
stessi bambini che mi buttano giù dal letto strillando
alle sette e mezzo del mattino, che mangiano quella roba che io non darei
neanche al mio cane! Sia
chiaro, non ho niente contro di loro! Ma quella roba fa schifo, puzza, e se io
non lavoro è colpa sua
che ci va al posto mio! [pausa. A misura che il disco scema, il rumore del
vento cresce. Si innesta con
le note di the waiter no.2, The Black Heart Procession. Rico mette una mano a conchiglia
sull’orecchio, forti spifferi muovono realmente i lampadari e le foglie di una
pianta all’angolo] Sentite? Questo
non me lo sto inventando, lo sentite questo vento? Lo vedete? Vedete che non
la smette di usare la mia città per le sue prove della sua
privata, personale orchestra dell’orrore?
Non è l’effetto di un fonico: è reale, e vuole farmi impazzire, come questo
tizio qui davanti a me,
che pretende di fottermi il record raddoppiando come il premio di un merdoso quiz televisivo. Ma
io sono un fro…un pros… un professionista, esco all’Aquila da quando Ju Boss stava dall’altro
lato della strada, non mi faccio fottere da qualcuno che non esiste. Non ci
credete? Ve lo dimostro subito,
con una prova male…mache… matematica, che lo farà sparire in un attimo…>>[allungando
la mano e strizzando il naso di Marco, poi il buio, sipario.]
Aprendo
gli occhi, Rico poteva vedere nella penombra un omino baffuto ammiccare da un
poster appeso al muro: la sua testa china fra le fauci spalancate di un leone sembrava
un dettaglio lontano dall’ impensierirlo.
La debole luce del giorno appena incominciato
filtrava ingiallita attraverso l’unica finestra del locale; chi si era preso la
briga di inchiodarci un telo di cellophane, scricchiolante per le continue
sferzate del vento fuori, non aveva tolto il vetro rotto dentro, la cui
ragnatela di incrinature raggiungeva i bordi esterni a partire da un buco nel
mezzo.
Dall’odore presente all’interno della stanza (una vecchia roulotte, ora
poteva vedere), nessuno ci metteva piede da un pezzo, lasciando alla polvere il
compito di nascondere le macchie di caffè sulla moquette logora e gli
scarabocchi verdi e rossi dei bimbi sul linoleum effetto legno; le ammaccature,
i graffi ed ogni altro aspetto della precedente vita di quel posto. La brandina
però aveva lenzuola pulite: Rico poteva sentirne il fresco profumo di lavanda
inspirando attraverso i grumi di sangue secco nelle narici.
Testò le condizioni
del setto nasale dolorante premendolo leggermente sulla stoffa del cuscino. Una
fitta lancinante lo fece alzare di scatto sul busto, lasciando un calco
insanguinato del suo viso a guardarlo dal sudario. Cosa era quel posto? Chi ce
lo aveva portato? Chi gli aveva ridotto la faccia in quel modo? L’altro Rico
sembrava ridere dal cuscino. Si mise in piedi a fatica. I postumi della sbronza
lo stritolarono subito, dopo due o tre passi, obbligandolo a puntarsi con le
braccia alle pareti mentre tentava di raggiungere un microscopico bagno in cui
provò a sistemare il volto tumefatto. Con la fortuna che lo contraddistingueva
la luce non si sarebbe mai acc… (click, perfettamente funzionante), dal
rubinetto sarebbero usciti al massimo degli scorp… (ehi, era anche calda!), e
non ci sarebbe stato nulla per medicare le fer… (una cassetta del pronto
soccorso colma di garze, cerotti e tinture di iodio sembrava aspettarlo da
sempre attaccata al muro).
Mezz’ora dopo era ripulito e disinfettato, una fasciatura
copriva il suo naso girando dietro la nuca; la testa (beati i vent’anni) andava
già molto meglio, lo stomaco era vuoto. Aprì la porta della roulotte e fu fuori.
Prima ancora di vedere qualcosa del mondo esterno fu investito da una raffica
di vento che lo attaccò alla parete della roulotte, poi ebbe chiaro ciò che
l’intuito presagiva ormai da tempo.
Già
a quell’ora del mattino un frenetico lavorio imperversava sull’accampamento del
circo, persone piccole come formiche gettavano corde dalla sommità di un grande
tendone a uomini in basso, che tentavano di rimetterne in asse i pennacchi
piegati dal vento. Altri erano impegnati a correre qua e là per raccattare
materiale sparso in giro, altri ancora invece a scaldare grossi pentoloni
d’acqua, passati poi ad un bimbo di cinque o sei anni che dalla sommità di una
scala ne versava il contenuto fumante sul dorso di un povero elefante indiano
tutto rattrappito dal freddo.
Una donna sulla cinquantina, che lo aveva fissato
a lungo dalla scala di una roulotte nuova, grande forse il doppio di quella da
cui era uscito, era sparita all’interno dopo un breve cenno con la testa.
Rico
attraversò il piazzale. Una dozzina di svolazzanti macchie di colore puntinavano l'alba grigia, erano magnifici esemplari di pappagalli schiamazzanti fuori da una voliera, caduta ed aperta su un fianco. Che dubitassero dell'importanza attribuita alla libertà da chi gliela negava, o del concetto stesso, o che più semplicemente non si ponessero il problema, era chiaro dai movimenti: una riproduzione perfetta della loro vita in cattività, circoscritta in brevi tragitti aerei limitati da invisibili sbarre alle quali non riuscivano ad aggrapparsi. Due sparuti dromedari, impalati in mezzo ad un vicino campo di rugby, venivano sospinti a fatica verso l’uscita da un uomo disperato in tuta, rabbiosa versione clownesca di Noè senza più il
controllo dell’arca: filtro di sigaretta maciullato fra i denti, grida
incomprensibili, cerone impastato a sudore, scolato sui glutei delle bestie che
non ne volevano sapere di muoversi. Forse l’idea era buona per farci un numero
quando tutto sarebbe ritornato a posto. Per il momento, il vento rendeva vani
gli eccezionali sforzi di tutti.
Entrando nell’altra roulotte Rico trovò la
donna davanti un caffè,immersa nella penombra. Tutto – dai mobili, ai pensili, ai quadri alle
pareti, alla rivista aperta, abbandonata sul bracciolo di un divano in fondo, al
piccolo carro siciliano di fianco alla maschera veneziana, alla torre di Pisa,
ad un paio di Colossei di diverse misure, a due pupi che incrociavano le armi in
singolar tenzone, alle altre innumerevoli testimonianze di una vita in strada
sparse ovunque – era prigioniero della propria forma, la cui natura inanimata, continuamente
bombardata dal fascio di luce di un
televisore acceso, era messa in dubbio da una vitale attività di variazioni
cromatiche interna ai perimetri degli oggetti. La sua faccia, immobile, non faceva
eccezione. Non tolse gli occhi dal suo programma televisivo neanche
quando le fece un cenno di saluto.
Dentro lo schermo, una bionda patinata
esponeva i suoi problemi di coppia ad un pubblico inferocito. Il marito di
fianco dissentiva, braccia incrociate e profondi dinieghi del capo in favore di
telecamera. Fuori, la donna spinse una tazzina vuota in direzione del ragazzo,
indicando la moka fumante del caffè.
<<Io…>>
<<Eri svenuto, mio figlio Marco ti ha
portato qui.>>
<<Grazie >>
La
donna in tv continuava ad arringare il pubblico con accuse di ogni ordine e
grado rivolte al marito, quella fuori a torturare un tovagliolo di carta fra le
mani. Rico non era in grado di associare l’attività frenetica di quelle dita al
volto sopra di esse: una lapide.
<<Come ti chiami? >>
<<Prendi dei
biscotti, avrai fame. Li faccio io>>, allungando il
piatto verso il ragazzo.
<< Si, grazie signora,
ho una fame da lupi>>
…i profondi dinieghi si trasformarono in uno scatto
repentino del marito, che tolse il microfono dalle mani della bionda patinata. La
signora versò il caffè nella tazzina di Rico, il tovagliolo informe giaceva
abbandonato sul tavolo.
<<Quella faccia invece è opera di Mirco, il
gemello. Una testata>>
Quindi
erano due. Fottiti, record del cazzo! <<…Niente, signora>>
<<Ti fa male?>>
<<No>> mentì, <<quasi
non lo sento>>
…la
bionda patinata intanto era corsa fra il pubblico, palesemente orientato in suo
sostegno, per piangere vere lacrime sul decolleté ingioiellato di un’anziana. Un
fiumiciattolo screziato di rimmel scorreva sulla sua pelle rugosa, ripreso in
primissimo piano da una telecamera, indugiante, a cinque centimetri dall’enorme
seno. Solo ai singhiozzi della bionda era permesso, momentaneamente, di
interrompere l’intervento ex cathedra della vecchia, altrimenti ascoltato nel
tipico, religioso silenzio riservato ai leader, o quantomeno ai capi corrente; un
profluvio di giudizi sommari, in direzione del marito, legati ad
incontrovertibili caratteristiche espressive ed altri aspetti del viso che
anche Lombroso sarebbe stato felice di analizzare, e che presto l’avrebbero condotta verso l'unica, irrevocabile sentenza. La donna fuori avvicinò la tazza alla bocca,
soffiando quando si accorse che il caffè scottava ancora.
<<Dai, prendi un altro biscotto, non farti
problemi>>
<<Nessun problema signora, grazie>>, scegliendone uno più grande degli altri <<Il
cuscino si è sporcato di sangue>>
<<Non preoccuparti, cambierò le lenzuola>>
…al
marito veniva intimato di lasciare immediatamente lo studio. Il suo orgoglio
però glielo impediva, costringendo la conduttrice a farlo scortare fuori da un
paio di energumeni passati casualmente da quelle parti. La tv si spense,
la signora continuò a parlare guardando lo schermo nero.
<< Quella roulotte non la usiamo quasi più
da quando abbiamo questa, lì sono cresciuti i miei figli. È piccola, ma si
stava bene, eravamo felici >>, accennando un
microscopico sorriso che non coinvolse gli occhi.
<< Anche il bagno è messo male… >>
<< Siete tutti così gentili alla luce del
giorno, poi chissà cosa vi prende…Anche il mio Mirco è un bravo ragazzo…>>
<< Si, signora, non ho dubbi>>
<< Sta passando un brutto periodo, a dire il
vero tutti… >>
La
notizia era piombata sul tendone rosso e blu del circo da due settimane,
deflagrando come una bomba sui loro giovani corpi di trapezisti, i cui resti
sarebbero rimasti sparsi sulla pista, in attesa di ricomposizione, per molto
tempo a venire. Ricomposizione che non sarebbe avvenuta per mano di loro padre:
se non l’armatore indiretto della bomba, quantomeno l’unica persona della
famiglia a conoscenza dell’imminente pericolo.
La conseguenza immediata
dell’esplosione, la prima di un perverso effetto domino che sembrava
lontanissimo, se non impossibile dal risolversi, obbligò il genitore a coprire
metà della grande insegna luminosa sovrastante il tendone, oscurandola il
giorno stesso con pezzi di telo impermeabile di una vecchia copertura dismessa,
e poi a realizzarne una nuova, senza le cubitali lettere del cognome; gli
ultimi effetti, in ordine di tempo, erano la sbronza di Mirco ed il naso rotto
di Rico.
Non erano più Orfei. Anzi, a detta di una sentenza del tribunale di
*****, non lo erano mai stati. Le cause, intentate da Madame Moira in persona
verso una pletora di piccoli circhi sparsi su tutto lo stivale –che secondo lei
si fregiavano indebitamente del nobiliare rango Orfei– non facevano prigionieri
fra artisti ed impresari, consapevoli o meno della loro non orfeità. Il padre,
domatore di lungo corso avvezzo più alle tigri che alle spiegazioni, liquidò le
loro domande con un colpo di frusta che lasciò i ragazzi, se possibile, in
un’indeterminatezza ancor maggiore.
A quel punto era come guardare indietro,
dopo un lungo viaggio, e scoprire che tutta la strada percorsa fino ad allora
era svanita, o, peggio, non era mai esistita; con il timore, più che fondato,
che anche quella da percorrere verrà sgretolata immediatamente dopo il
passaggio. Era difficile adesso per i ragazzi, prima dell’esercizio, incrociare
gli sguardi come sempre avevano fatto sin da bambini, ritrovarsi nei nuovi sé
stessi, nelle sembianze apparentemente identiche all’esterno ma profondamente
ed indelebilmente mutate all’interno; lanciarsi nel vuoto, l’uno verso l’altro,
con il timore non di cadere (per quello c’era la rete), ma di una sorte ben peggiore,
quella di non riconoscersi, di perdersi nello sguardo di ogni trapezista non
Orfei incontrato nella loro vita.
Per loro era diverso. Loro erano
diversi, quel cognome era diverso. Era il fiato caldo di un compagno nella
trincea gelata, o la granata caduta a dieci passi da te. Era il luccichio di un
gallone sui volti logori dei superstiti, passati in rassegna dopo la battaglia,
o una camionetta che squarciava il silenzio verso l’aeroporto militare, abbandonando
una notte sconosciuta alle proprie spalle. Era l’abbraccio di una madre fra le
rose di un giardino, uguale a quando te n’eri andato, era tornare a casa davvero,
e non in sogno come ogni notte da mesi. Ma quella verità non apparteneva più ai
ragazzi: la nuova, marchiata sulle loro carni dal colpo di frusta paterno,
signore e signori, era che giorno dopo giorno la presa si sfaldava
inesorabilmente, e la rete sarebbe servita a poco, a salvarne i corpi e
nient’altro. Non aveva più importanza, adesso, ciò che si era o si credeva di
essere stati, e quale posto si era occupato prima: doveva avere importanza
solamente trovare una nuova strada. Per il momento, purtroppo, si procedeva a
vista, in un presente senza domani e senza ieri, in definitiva senza uscita.
<<Credo che voi potete capire…il terremoto
intendo>>
<< Beh, anche voi col vento stanotte…questa città porta
sfiga>>
<< Il tendone si raddrizza…>>, fissando mestamente un punto sul muro dietro la
testa fasciata del ragazzo. Rico prese un altro biscotto, pensando che il suo
naso probabilmente sarebbe rimasto storto…
La
storia poi si srotolò nella direzione che conosciamo: Rico lasciò
l’accampamento un po' più sazio di come ci era entrato, ma con un naso rotto
che prima non aveva. Raggiunse a piedi il vicino centro commerciale e si
appollaiò sulla balaustra, aspettando il primo fesso che andasse nella
direzione di casa sua. Guardò a lungo quella strana ragazzina, che usava una
macchina come il salotto di casa, e continuò a guardarla anche quando si lavorò
il tizio della macchina per scroccare un passaggio. Che tipa! Non le tolse gli
occhi di dosso neanche quando le mostrò il dito medio passando ad un metro da
lui, seguendo con lo sguardo ed un sorriso ebete la macchina che si allontanava.
Era stregato. Dopodiché un nuovo sole sulla città ferita, un nuovo giorno
allontanava sempre più quella terribile notte dal presente. Le gru pigre
scandivano il ritmo lento ma inesorabile della rinascita, la luce lentamente
guadagnava spazio sulle tenebre. Il vento finalmente era cessato, mentre i
titoli di coda scorrevano lenti sull'orizzonte illuminato della città…ma la
macchina imboccò la direzione sbagliata. Rico aspettò lo stop del regista, che
non arrivò, poi si gettò a capofitto nel buio, seguendo la macchina entrata in
un anfratto. La raggiunse rischiando un infarto. Nella scena successiva lo
sportello era aperto, Rico incrociava lo sguardo di Galina raggomitolata
all’interno, mentre tempestava di calci il tizio occhialuto steso fuori
dall’auto con i pantaloni abbassati. Le sorrise colpendolo ripetutamente ai
fianchi. L’uomo rantolò, fiottando sangue dalla bocca prima di svenire. Solo
allora Rico si fermò, lasciando l’uomo a terra per prepararsi al gran finale.
Raggiunse Galina ancora acquattata dentro l’auto, stendendo una mano verso di
lei. La ragazza lentamente uscì dall’auto, stese la sua e…
–…e passala sta
canna! –
Rico
sobbalza, poi stende una mano verso di lei. La ragazza allunga la sua e prende il
tubicino fumante. La pausa è finita, si torna al lavoro. Un vecchio ha offerto
ai ragazzi cinque euro per ogni libro integro che fossero riusciti a portargli.
Dieci se avessero trovato il primo volume di Arcipelago Gulag. C’è una montagna
di libri da setacciare prima di sera.